Il Diario del Lavoro
Dopo il liceo del Made in Italy, il ministero dell’Istruzione e del Merito vara la legge dell’8 agosto 2024, n. 121, sull’Istituzione della filiera formativa tecnologico-professionale: un nuovo corso di istruzione secondaria della durata di quattro anni con una forte vocazione alla professionalizzazione degli studenti. L’impresa entra nella scuola e sale letteralmente in cattedra, prendendo il posto e il tempo della didattica canonicamente intesa per formare i lavoratori del futuro. Una legge che, però, ha riscosso poco successo tra gli studenti e i dirigenti scolastici e che il sindacato contesta aspramente. Ne parla in questa intervista a Il diario del lavoro la segretaria generale della Flc-Cgil, Gianna Fracassi.
A fine agosto è stata pubblicata in gazzetta ufficiale la legge per l’Istituzione della filiera formativa tecnologico-professionale. Di cosa si tratta?
La legge prevede l’istituzione di una sperimentazione di percorsi sulla filiera tecnologica professionale che hanno una durata quadriennale, quindi ridotta di un anno, al termine dei quali c’è la possibilità di ingresso negli ITS – come già oggi è possibile per coloro che finiscono il quinquennio. Il vero tema è la riduzione di un anno di questi percorsi. Sul versante ordinamentale, invece, vi è una forte presenza dei PCTO, ex alternanza scuola-lavoro, con un aumento delle ore di formazione, ma con un raccordo molto forte con le imprese e con addirittura la possibilità di utilizzo, per una parte dell’orario di insegnamento curricolare, dei cosiddetti esperti provenienti dal mondo del lavoro e delle professioni.
La Flc, così come gli stessi collegi dei docenti, hanno espresso una posizione particolarmente critica a riguardo. Perché?
Questa operazione è fatta in raccordo con le imprese del territorio attraverso il cosiddetto campus, una specie di “punto organizzato”, che tra l’altro si sovrapporrà al ruolo degli organi collegiali. Come sindacato troviamo che tale impostazione sia particolarmente dannosa sotto molti punti di vista. Il primo è che c’è una piegatura, una modifica dei curricoli, legata alle esigenze attuali del singolo territorio, quindi un’operazione che prepara gli studenti al mondo del lavoro di oggi ma non fornisce competenze per il mondo del lavoro di domani, cosa che effettivamente dovrebbe fare la scuola. È un’operazione che rischia di trasformare gli istituti tecnici e professionali in percorsi preparatori orientati solo ed esclusivamente all’occupabilità nel presente. Noi crediamo che questo non sia il ruolo della scuola: è sicuramente importante preparare le ragazze e i ragazzi all’ingresso nel mondo del lavoro, ma piegare una parte consistente del curricolo per addestrarli alle esigenze produttive delle imprese in un determinato territorio rischia di mettere fuori gioco questi stessi ragazze e ragazzi nel momento in cui c’è una trasformazione che riguarda gli assetti produttivi. Una cosa è favorire il percorso biennale degli ITS e introdurre degli elementi legati alle esigenze del mondo del lavoro di quel territorio, ma nel caso della filiera formativa tecnologico-professionale siamo in una fase anticipata che si colloca comunque all’interno di un quadro di riferimento legato all’obbligo formativo e di istruzione. In questo modo viene snaturato anche il ruolo e la funzione del percorso di istruzione statale.
Ma cosa comporta l’abbassamento a 4 anni della formazione scolastica?
Della riduzione di un anno non si comprende l’obiettivo. In un contesto in cui i dati Ocse ci dicono che abbiamo un livello di conoscenze e competenze mediamente più basso, nonché uno scarso numero di laureati, questo percorso non è di certo un incentivo a proseguire gli studi all’interno dell’università. È vero che stiamo parlando di filiere che tradizionalmente offrono meno iscritti all’università, ma comunque un 30% proviene dagli istituti tecnici. Un’operazione di questo tipo – che riduce di un anno il percorso formativo e che abbatte una parte di curricolo – rischia in qualche modo di depotenziare anche la possibilità di accesso al percorso universitario. Se è necessario innalzare i livelli di conoscenze e di competenze, come sottolinea anche l’Ocse, allora non si comprende perché si debba tagliare di un anno la scuola secondaria di secondo grado. Tra l’altro, comprimendo gli attuali programmi all’interno di un quadriennio, la parte che verrà sacrificata sarà quella umanistica facendo venir meno un equilibrio formativo indispensabile. Questi percorsi così appiattiti sull’oggi lavorativo sono pericolosi anche perché rischiano di far acquisire ai ragazzi e alle ragazze conoscenze e competenze facilmente obsolescenti e non è questo quello che dovrebbe fare il percorso di istruzione soprattutto in una fase anche di cambiamento profondo come quello a cui stiamo assistendo. Insomma: con meno scuola e ingresso forzoso dell’impresa, addirittura anche nella definizione del curricolo e nella docenza, assisteremo a un’operazione di destrutturazione di una filiera molto importante per il nostro Paese, che ne ha consentito lo sviluppo economico. È quindi una scelta sbagliata.
Il ministro Valditara ha aggettivato come “comunisti” coloro che prendono posizione contraria a questo tipo di riforme. Cosa si risponde?
Quando a un’obiezione di merito si risponde con un’affermazione che per lui evidentemente è un insulto, vuol dire che non ha argomenti. A parte il fatto che con questa riforma si anticipa addirittura di un anno l’alternanza scuola lavoro, visto che gli studenti vi accedono a 15 anni, il ministro Valditara non sa di che parla dal punto di vista storico. Per quanto riguarda la Cgil, la nostra organizzazione ha sempre valorizzato, sia nelle proposte che nelle scelte, la cultura del lavoro nella scuola, ma questa non è cultura del lavoro, è addestramento al lavoro: l’operazione che viene fatta è di tipo ideologico, anche arretrata dal punto di vista dello sviluppo se si guardano alle necessità di un futuro lavoratore. Qualche anno fa la Commissione europea rilasciò uno studio sulla necessità di qualificazione dei lavoratori e delle lavoratrici da cui emergeva il fatto che la metà degli impiegati in Europa avrebbe avuto bisogno di urgenti interventi per rafforzare competenze e conoscenze a rapido rischio di obsolescenza. In un contesto come questo, tra l’altro ribadito anche da Mario Draghi nel rapporto sulla competitività, si può pensare che sia giusta la scelta di abbassare ulteriormente conoscenze e competenze? Se ci si specializza e si settano le proprie conoscenze senza competenze di base molto forti che consentano anche capacità di autoaggiornamento e riqualificazione costanti, questi profili saranno i primi ad aver bisogno di ricollocazione in un mondo del lavoro che cambia molto rapidamente. Quindi la riforma è sbagliata proprio concettualmente.
D’altra parte la comunità industriale, soprattutto delle filiere ad alta specializzazione, invocano una preparazione che non sia limitata alle sole competenze tecniche.
Certo. Bisognerebbe mettere in campo un piano Marshall delle conoscenze e delle competenze, un grande sforzo come è stato compiuto in un altro passaggio economico importante nella storia del paese. Negli anni ’60, infatti, la scelta fu di innalzare a 13 anni, dopo le scuole medie, l’obbligo scolastico per favorire i percorsi successivi. Oggi non si sta compiendo una scelta analoga, il che è francamente incomprensibile soprattutto se guardiamo alle due grandi traiettorie di sviluppo che sono la digitalizzazione e la decarbonizzazione. Sono tutte traiettorie che comportano una trasformazione molto forte anche in settori labour intensive e per profili con qualificazione medio bassa, per i quali occorre avere capacità e conoscenze sicuramente più elevate. È qui che avanziamo la critica a questo tipo di interventi.
Secondo la legge alle regioni spettano i compiti di programmazione dei percorsi della filiera e di definizione delle sue modalità realizzative. Si tratta di una regionalizzazione ulteriore dell’istruzione?
Questo disegno di legge è sicuramente l’anticipo del percorso dell’autonomia differenziata ed è stato pensato in quella prospettiva.
A tal proposito sorprende il caso della Calabria che, a differenza di altre regioni del meridione, ha ricevuto le adesioni di 25 istituti ma non un numero sufficiente di ITS per la formazione successiva. Come si spiega?
La spiego soltanto con una forte pressione del Ministero in alcuni territori ed anche con il favore dei dirigenti scolastici, ma non tra il personale. Il paradosso è che la Calabria ha avuto in percentuale più adesioni della Lombardia, quando è evidente che questo progetto è pensato esattamente per le regioni produttive del Nord. Quindi questo non mi sembra un successo, perché per quei territori dove si immaginava un forte sviluppo non c’è stato nessun riscontro ed evidentemente non serve neanche alla imprese di quei territori.
Sia la filiera formativa tecnologico-professionale che il Liceo del Made in Italy, le due più recenti conquiste nel campo dell’istruzione, hanno ricevuto pochissime adesioni, rispettivamente 1.669 e 375 iscrizioni. Cosa dimostrano questi numeri?
Il liceo del Made in Italy è una sorta di mozione dello spirito, perché nella pratica nessuno ha capito che cosa sia esattamente. L’altro fatto molto grave, almeno per quest’anno scolastico, è la sostitutituzione di questo indirizzo con un preesistente corso del liceo economico sociale, indirizzo che riscuote, invece, un buon successo di iscrizioni. Il progetto per il liceo del Made in Italy è stato presentato solo per il biennio senza neanche paventare che cosa sarebbe poi accaduto nel triennio. È un salto nel buio e stiamo parlando di un percorso di istruzione, non una banalità. I numeri dimostrano il fatto che l’utenza, gli studenti e le famiglie, sono poco interessati: 375 alunni per il Made in Italy su 114 scuole quindi vuol dire tre alunni a scuola. Per la filiera della formazione tecnologico-professionale hanno dovuto inserire una buona parte di scuole paritarie in Italia e all’estero, per ingrossare i numeri. Tra le altre, infatti, ha aderito anche una scuola paritaria dell’Egitto, quindi forse è un progetto che va forte oltremare.
Ma quindi qual è il fine di queste riforme?
È un assalto alla secondaria finalizzato alla privatizzazione di un pezzo della scuola, perché l’ingresso dei privati va in questa direzione. Penso che dimostri anche che al governo non interessi assolutamente nulla della scuola, che abbia un’impostazione ideologica sul sistema di istruzione e che non conosca neppure che cosa significhi il termine condivisione. Prova ne sono, da ultimo, le linee guida sull’educazione civica che non sono nate, appunto, da una condivisione con chi nelle scuole vive e lavora quotidianamente. Inoltre, penso anche che al Governo importi poco anche dello sviluppo economico del nostro Paese perché profondamente ancorato a una visione vecchissima di quello che realmente serve all’Italia – tant’è che non si parla neppure di politiche industriali e di politiche di sviluppo, che sono fondamentali anche per ridisegnare un modello di sistema di istruzione. Si stanno facendo gravi danni alla scuola, che, per quanto ci riguarda, noi abbiamo contrastato e continueremo a contrastare
In generale crede che la scuola italiana avrebbe bisogno di un aggiornamento dei percorsi didattici e formativi?
Assolutamente sì, ma bisogna evitare che gli interventi vengano fatti con l’idea di fondo di fare un’operazione di taglio o, peggio ancora, calata dall’alto. Noi abbiamo assistito alla riforma Gelmini, che ha usato i progetti di riforma per adeguarci al taglio antecedente di 8 miliardi di euro nel 2009 e oggi sembra di assistere alla stessa trama. A mio parere il primo cambiamento riguarda il percorso scolastico obbligatorio per i ragazzi, che dovrebbe essere elevato almeno fino a 18 anni; c’è bisogno di cambiare modelli di didattica, il che comporta avere meno alunni per classe; bisogna probabilmente rivedere i curricoli, potenziare anche la parte di materie elettive che i ragazzi possono scegliere e avere anche momenti che non siano solo di apprendimenti formali ma anche, utili per capire che cosa vogliono fare, non solo attraverso il tutor orientatore, purché individuato tra i docenti del consiglio di classe, ma anche attraverso le materie che orientano. Quindi sì, servono delle riforme importanti, ma non mi sembra che siamo nelle condizioni né politiche, né tantomeno economiche per attuarle proficuamente. Anzi, il timore è che il quadro economico che si sta costruendo con la manovra e con l’adesione al patto di stabilità europeo, comporterà per il nostro Paese ulteriori risorse da tagliare infierendo, inevitabilmente, anche sui sistemi d’istruzione.
Fronte lavoro, invece, qual è il tema più urgente?
I salari di chi nella scuola ci lavora, perché ogni processo di riqualificazione richiede un adeguamento stipendiale decente, come certifica anche l’Ocse. Noi lo diciamo da tanto tempo, consapevoli del fatto che a un certo punto si è persino bloccata per dieci anni, dal 2008 al 2018, la possibilità di avere dei rinnovi contrattuali. Queste cose non accadono per caso, per cui ci sono responsabilità e responsabili. Anche se Valditara contesta i nostri numeri, una figura su quattro, tra docenti e ATA (complessivamente parliamo di 250.000 lavoratrici e lavoratori) è precario per effetto di riforme che mettono le persone le une contro le altre – come accaduto, ad esempio, sulla questione dei concorsi e dei titoli. A fronte di ciò, non si può pensare che il sistema non ne risenta, al di là dell’entusiasmo delle tante persone che lavorano nella scuola. Perché in queste condizioni l’entusiasmo scema, soprattutto quando mancano le certezze rispetto al percorso di lavoro intrapreso.
Elettra Raffaela Melucci
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