La ministra Bernini si è impegnata a salvare le università telematiche. Gli undici atenei che erogano esclusivamente corsi a distanza sono stati costituiti durante il secondo governo Berlusconi, con la Ministra Moratti (art. 26, comma 5, della legge 27 dicembre 2002, n.289) e sono stati congelati dal secondo governo Prodi, con il Ministro Mussi, impedendo l’accreditamento di nuove realtà (art 2, comma 148 del DL 3 ottobre 2006, n. 262). Per vent’anni, in attesa di uno specifico Regolamento per definire compiutamente criteri e procedure di accreditamento, questi atenei sono sopravvissuti con una normativa speciale, delineata dal DM del 17 aprile 2003 e, dopo la cosiddetta legge Gelmini (2010), dai successivi decreti triennali sulle Linee Generali di indirizzo della programmazione e sull’Autovalutazione, valutazione, accreditamento iniziale e periodico delle sedi e dei corsi di studio, che prevedevano specifiche disposizioni per queste istituzioni. Nel 2021, però, l’allora Ministra Messa emanò il Decreto Ministeriale n. 1154, che in sostanza ha previsto il riallineamento degli atenei telematici ai criteri ed ai requisiti del sistema universitario italiano. I requisiti didattici su docenti e numerosità di riferimento dei corsi erano infatti previste senza distinzioni, mentre il decreto direttoriale 2711/2021 fissava al 30 novembre 2024 la data per la loro verifica. Le università telematiche hanno tentato ogni strada per fermarne l’applicazione: hanno presentato un ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, senza esito; sono ricorse al TAR del Lazio, ma la Sezione Terza ha respinto le loro istanze (sentenza breve n. 17236 del 21 dicembre 2022); si sono appellate al Consiglio di Stato, che gli ha dato nuovamente torto (sentenza n. 1157 del 5 febbraio 2024); hanno sperato nell’emendamento al Milleproroghe 2024 presentato da alcuni deputati della Lega (Ravetto, Stefani, Bordonali, Ziello e Iezzi), che rimandava di un anno gli obblighi ad uniformarsi ai criteri del DM. L’emendamento ottenne il parere contrario dalla Ministra Bernini, la quale però si è fatta a sua volta carico di quella domanda, dando nuova vita ad un gruppo di lavoro ministeriale con le università telematiche già istituito dalla ministra Messa (DM 294/2021) e da tempo su un binario morto. In questi mesi si sono moltiplicate indiscrezioni e dichiarazioni su questo tavolo, mentre si è fatto slittare nei fatti il termine previsto, in attesa dell’annunciata revisione di criteri e procedure. La Ministra ha infatti emanato lo scorso giugno il DM 773 di programmazione triennale 2024/26, espungendo le solite parti relative ai corsi a distanza, mentre uno dei protagonisti, Bandecchi (patron di Unicusano e sindaco di Terni), ha sostenuto la candidata della maggioranza governativa alle delicate elezioni regionali umbre. Così si è arrivati in queste settimane, in extremis ma in tempo sulla scadenza del 30 novembre, a presentare a CUN e CNSU lo schema di decreto sulle università telematiche.
Il problema è il modello di business, non la didattica a distanza. Lo abbiamo sottolineato nel rapporto Il piano inclinato, lo abbiamo ribadito nell’incontro dello scorso 10 aprile 2024. Il soggetto che oggi ha assunto le dimensioni più significative, Multiversity, ha trasformato le sue università in società di capitali, costruendo una strategia industriale focalizzata su centri territoriali in franchising (learning point) e l’accompagnamento agli esami, anche oltre il lecito (esami on line da casa; esami standardizzati a scelta multipla; diffusione di panieri con le risposte, stile esame per la patente). Altre sedi, pur rimanendo Fondazioni senza scopo di lucro, hanno adottato le stesse strategie. Tutto questo avviene a partire da un rapporto aberrante tra studenti e docenti (oltre 1 a 300, a fronte di meno di 1 a 30 negli atenei statali e non statali in presenza), in un contesto di forzature e abusi nei rapporti con il personale (bandi a tempo definito per la docenza di ruolo; regolamenti non esistenti o non applicati su carichi e scatti; sottoscrizione di contratti di diritto privato per la docenza, con la cessione di ogni diritto sui propri prodotti didattici; applicazione di contratti del commercio al personale tecnico e amministrativo), su cui solo oggi emerge un’intenzione di superamento che intendiamo verificare. Alcuni atenei telematici sono quindi cresciuti enormemente in questi anni, costruendo un segmento di formazione molto spesso dequalificata, che apre divergenze di sistema sulla parificazione dei titoli di studio e che si allarga progressivamente ai percorsi in presenza (pensiamo all’experience di corsi in presenza frequentabili in streaming o l’adozione di centri studi di supporto da parte dell’Università degli studi Link, agli usi e agli abusi nei corsi abilitanti della docenza, ecc).
Lo schema di decreto concede tre salvaguardie e assesta un buffetto. In queste settimane sono circolate diverse bozze, arrivando anche sui media ipotesi più o meno compiacenti rispetto ad interessi e prospettive delle università telematiche. Tre ci sembrano i punti focali di questo Decreto, che concedono molto e soprattutto l’essenziale a chi sulle modifiche del DM 1154 giocava gli stessi spazi di sopravvivenza del proprio business, come sottolineato da un’agenzia internazionale di rating. Una valutazione che si sembra oggettiva, di là di ogni considerazione sulle lunghe trattative sottese a questo testo (su cui pure molto ci sarebbe da dire, con un profilo istituzionale del Ministero oramai dissolto) e su quello che si è evitato (un atteggiamento di riduzione del danno che, per quanto comprensibile per un’organizzazione sindacale, ci pare sostanzialmente inappropriato quando si parla di principi e criteri generali di funzionamento di un sistema).
- In primo luogo, sono rivisti i requisiti relativi alla numerosità di riferimento degli studenti. L’obbiettivo di fondo di impedire l’applicazione del DM 1154 è stato raggiunto, ben oltre la semplice richiesta di slittamento dei requisiti. Lo schema di DM prevede una numerosità per i corsi telematici doppia rispetto a quelli in presenza, arrivando per quelli umanistici-sociali a 500 studenti nelle triennali, a 200 nelle magistrali. Non è solo un problema di grandezza dell’aula, cioè di costruzione di modalità didattiche realmente interattive. Queste dimensioni si ripercuotono su tutto il percorso, a partire dalle possibilità di un reale confronto tra studenti e docenti negli esami e nell’elaborazione delle prove finali (le tesi di laurea), oltre che nella moltiplicazione dei carichi di lavoro per i docenti. Il risparmio per gli atenei telematici è evidente: l’ANVUR ha calcolato il fabbisogno previsto dal DM 1154 per loro in 1.766 docenti di ruolo, secondo il nuovo decreto sarebbero solo 691. Una differenza di 1.075. Il costo lordo di ingresso per un professore associato è oggi di 77.885 euro, il massimo raggiungibile con le progressioni biennali è di 142.646 euro; per un professore ordinario l’ingresso è di 110.996 euro, il massimo 195.305 euro. La differenza non garantisce solo un risparmio, ma determina la stessa possibilità di un margine di profitto, altrimenti difficile da sostenere. Cioè, il business in questo settore è garantito dalla mancanza del rispetto dei requisiti minimali che si impone al resto del sistema universitario, standard che già oggi stabiliscono un rapporto complessivo tra docenti di ruolo e studenti tra i più alti d’Europa.
- In secondo luogo, si rivede i tempi per raggiungere questi requisiti. Se il Decreto direttoriale 2711/21 imponevano il rispetto dei requisiti entro il 30 novembre 2024, la data di verifica dei nuovi requisiti alleggeriti è ulteriormente posposta di 3 o 4 anni (i piani di raggiungimento adottati in relazione ai corsi di studio accreditati sino all’a.a. 2024/2025 la durata è pari alla durata normale dei corsi incrementato di uno). Si moltiplicano, cioè, gli anni di slittamento dall’emendamento leghista: così si apre nei fatti la strada alla possibilità che, se anche questi requisiti alleggeriti si scontreranno con le condizioni di mercato, ripartirà la giostra delle proroghe e degli slittamenti. Perché questo Decreto assume nei fatti che il vincolo di fondo a cui le regole devono adeguarsi è quello della sostenibilità economica delle telematiche, non la qualità dell’offerta formativa.
- In terzo luogo, si interviene sugli esami. Come abbiamo visto, le modalità di esame sono una componente non secondaria del modello di business di questi atenei. La nostra organizzazione, ma anche i media, hanno più volte sottolineato in questi mesi le prassi illegittime condotte da questi atenei: da una parte gli esami a distanza anche dopo la conclusione dell’emergenza sanitaria (a fronte di norme che esplicitamente indicano la necessità della presenza), dall’altra l’adozione di loro specifiche forme standardizzate (in violazione della libertà di docenza). Il Decreto apparentemente regola ulteriormente questa materia, del resto già regolata dalle norme precedenti, continuamente violate negli scorsi anni senza alcun intervento di MUR, CUN e ANVUR. Però la regolazione prevista nel testo è in realtà distorta, con eccezioni ad oggi inesistenti e indicazioni perentorie sulle modalità di valutazione. Il Decreto, infatti, introduce puntuali deroghe alla presenza alle valutazioni di profitto e alle prove finali, in relazione ad a) specifiche situazioni personali, relative a studenti con gravi e documentate patologie, infermità o in detenzione, b) temporanee situazioni emergenziali, prevedendo però che le fattispecie di cui al presente comma possono essere integrate con decreto del Ministro sulla base del mutamento delle tecnologie a disposizione per lo svolgimento degli esami. Si prevede quindi esplicitamente la possibilità di ulteriore deroghe, non in considerazione di condizioni straordinarie, ma sulla base dell’esistenza di tecnologie appropriate. Cioè, questo Decreto, al di là di una costruzione che sembra suggerire una previsione eccezionale degli esami on line, introduce di fatto la possibilità di tenere usualmente esami a distanza sulla base delle tecnologie a disposizione, attraverso successive disposizioni ministeriali. Inoltre, si introduce in allegato l’indicazione che l’esame di profitto in presenza dovrà tener conto e valorizzare il lavoro svolto in rete (attività svolte a distanza, quantità e qualità delle interazioni on line, ecc.), a partire dai risultati di un certo numero di prove intermedie e dalla qualità della partecipazione alle attività on line (frequenza e qualità degli interventi monitorabili attraverso la piattaforma). Cioè, nello stesso momento in cui si afferma la necessità della presenza, si indica anche l’obbligo di considerare nella valutazione di profitto le prove intermedie a distanza e le interazioni on line. Al di là dell’inclusione in documenti ministeriali di disposizioni sulle forme di esame e sulla loro valutazione, si prevede quindi una componente on line obbligatoria nella valutazione, riducendo di fatto il valore e il peso dell’esame in presenza. In conclusione, la nuova regolazione è in realtà funzionale a permettere alle telematiche di costruire percorsi di aggiramento tali da confermare l’attuale accompagnamento agli esami al centro del loro modello di business.
- Infine, un buffetto. La discussione degli scorsi mesi sullo sviluppo delle università telematiche, sui pregi e sui limiti della didattica a distanza, anche alla luce della massiva esperienza dell’emergenza pandemica, aveva sviluppato nel mondo accademico una diffusa e consolidata valutazione relativa alle necessità di prevedere spazi adeguati di didattica sincrona, cioè di lezioni on line non registrate, in cui l’interazione fosse diretta. Questa valutazione interferiva fondamentalmente con un modello di università a distanza che in questi anni non si è consolidato sulla visione o l’ascolto delle lezioni, ma sulla preparazione degli esami a scelta multipla (come evidente nei tutorial presenti in rete). Le ipotesi che sono circolate in questi mesi chiedevano la presenza di almeno un 30%, se non un 40%, di lezioni on line all’interno di ogni corso telematico. Il Decreto prevede lo svolgimento in forma sincrona di una quota, comunque, non inferiore al 20% di ciascuna delle attività didattiche svolte a distanza. Anche qui, evidente è l’obbiettivo di ridimensionare e salvaguardare l’attuale modello degli atenei telematici.
Questo Decreto sui media è presentato come un compromesso: non è così. Le dinamiche e gli abusi di questi anni trovano oggi nuove conferme. Non siamo gli unici a pensarlo. Le dichiarazioni di molti Rettori in queste settimane sono state chiare. Come è stata esplicita la scelta di diversi atenei (Padova, Bologna, Firenze tra gli altri) di impedire al proprio personale docente di insegnare negli atenei telematici (vietando l’autorizzazione attraverso delibere dei propri organi accademici): una scelta confermata dal TAR del Veneto (sentenza n. 02020/2024), in nome della salvaguardia della concorrenza. Una sentenza che per molti versi ci ha preoccupato (in quanto prende atto e al contempo rilancia una logica di mercato, secondo noi non solo sbagliata ma lesiva anche della libertà e della cooperazione che sono proprie dell’attività didattica e di ricerca). In ogni caso conferma la necessità di rimarcare la distanza dai modelli di business delle telematiche che esiste in larga parte del mondo accademico. Mentre organizzazioni della docenza, studenti e rettori hanno tenuto il punto in questi mesi, il Consiglio Universitario Nazionale si è oggi espresso in modo diverso.
Il CUN, infatti, ha approvato a maggioranza un parere complessivamente favorevole verso questo Decreto. Ha scelto, cioè, un parere compiacente, pur segnalando alcuni degli aspetti critici. Questo parere offre oggi una sponda importante, se non essenziale, all’azione del Ministero, dando un via libera al superamento del DM 1154 e allo sviluppo di questo modello di università telematiche in Italia. È una responsabilità grave, perché conferma e rafforza una deriva che rischia di degradare progressivamente la stessa tenuta del sistema universitario nazionale, consolidando un circuito di offerta formativa dequalificata che potrebbe ulteriormente allargarsi nei prossimi anni. Certo, non è probabilmente un caso se in queste settimane si vota alle Camere una norma che prevede il congelamento del CUN sino alla prossima estate (art 5 del DL 28 ottobre 2024, n. 160), in attesa di una sua riforma strutturale. Sappiamo che in questa maggioranza parlamentare e in questo governo sono diverse le voci che intendono subordinare al potere politico gli organi di autogoverno dei diversi apparati dello stato, che sovraintendono ed inverano quel modello di Stato pluralista, rispettoso delle diverse autonomie, che è affermato nella nostra Costituzione. Lo vediamo nell’Istruzione e nella Giustizia, lo vediamo anche nell’università. Si interpreta il CUN, organo elettivo di rappresentanza del sistema universitario (art 1, Legge del 16 gennaio 2006, n. 18) come strumento consulenziale del Ministero e probabilmente così si vuole trasformarlo. La FLC CGIL difenderà sempre l’autonomia del sistema nazionale universitario, proprio a partire dall’autonomia dei suoi organi di rappresentanza. Però, proprio in questo frangente, la difesa dell’autonomia e della rappresentanza del CUN passa dalla sua capacità di continuare a svolgere la sua azione in modo indipendente, difendendo il punto di vista e l’interesse del sistema nazionale universitario.
Così, non ci sembra sia stato con il parere con le telematiche. Così, non è stato su quello relativo al DdL 1240 (revisione del preruolo). Lo abbiamo già sottolineato con altre associazioni del precariato e della docenza universitaria. Al di là di ogni considerazione, comunque, dichiarare che la figura di post-doc debba ridurre l’importo della retribuzione lorda in quanto ad oggi troppo onerosa, come il CUN ha fatto in quel parere (a maggioranza), vuol dire assumere un punto di vista altro rispetto a quello delle prospettive della comunità universitaria. Dire che uno stipendio di un post-doc sia oggi troppo oneroso è semplicemente senza senso (stiamo parlando di circa 1.400 euro netti al mese, per un lavoratore o lavoratrice laureato e con un dottorato). Soprattutto, però, si introduce un precedente: quando fra un paio di anni, a fronte del probabile dissesto di 2/3 degli atenei italiani, si attaccheranno stipendi e progressioni in quanto troppo onerosi, questo parere sarà ricordato. Quando si scaricano le contraddizioni di sistema sulle lavoratrici e i lavoratori precari, non si garantisce mai nulla se non il progressivo degrado di tutti i rapporti di lavoro. Se si pensa oggi di esser superiori a tutto questo, o si assume il punto di vista dell’Amministrazione e non quello della comunità universitaria nel suo insieme, si sarà semplicemente travolti. Allora, sul precariato come sulle telematiche, non vediamo altra via di uscita che la moltiplicazione del confronto, dell’attivazione e della mobilitazione nei dipartimenti e negli atenei del paese.