Merito vs inclusione scolastica: la scuola dei “migliori” non è la scuola della Costituzione

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“Se non imparo nel modo in cui tu insegni, insegnami nel modo in cui io imparo”.
(Harry Chasty)

In quasi mezzo secolo di storia, l’inclusione scolastica ha percorso una strada difficile e importante, fatta di passaggi culturali e normativi volti a superare la visione di una didattica speciale, rivolta esclusivamente ad alcuni, per aprire a una prospettiva che il pedagogista Andrea Canevaro definiva “ecosistemica ampia”, a favore di un approccio flessibile e adeguato ai bisogni formativi speciali di ogni alunno, nessuno escluso.

La ridenominazione del Dicastero di viale Trastevere in “Ministero dell’Istruzione e del merito”, fondata, al contrario, su un’idea di scuola che valorizza (o seleziona?) “i migliori e più capaci”, rappresenta un vero e proprio ribaltamento del paradigma pedagogico che ha ispirato intere generazioni di docenti e che, pur tra mille contraddizioni, è stato il cardine di un complesso iter normativo in materia di inclusione scolastica.

Francesco Sinopoli. Sul concetto di merito e sull’idea costituzionale della scuola pubblica

Se la Legge 517 del 1977 avvia un processo di integrazione degli alunni con disabilità nelle classi comuni, la visione della Legge 170 del 2010 e delle successive Linee Guida del 2011 rappresenta un punto di ulteriore avanzamento, portando all’attenzione di tutti difficoltà e strategie di apprendimento di tanti bambini e ragazzi al di là delle situazioni di disabilità certificata, allo scopo di non lasciare indietro nessuno e di trasformare le differenze da problema a risorsa capace di indurre elementi di qualità nei processi di insegnamento-apprendimento.

Una comunità scolastica è inclusiva, quindi, se accoglie e valorizza le differenze individuali nell’ambito di un progetto educativo e didattico complessivo che si arricchisce di strategie pedagogiche, metodologiche, didattiche e diventa occasione di miglioramento generalizzato del fare scuola, affinché ciascuno possa esprimere al meglio le proprie potenzialità e farne patrimonio di tutti.

Spetta alla scuola, alle scuole di ogni ordine e grado, il compito di affrontare la complessità delle differenze per evitare che si trasformino in disuguaglianze e, investendo risorse e attingendo alle proprie professionalità, applicare e agire forme di didattica inclusiva attraverso un’organizzazione del lavoro scolastico in cui ci sia spazio per tutti e per ciascuno, compreso chi, per vari motivi, parte più svantaggiato.

Non servono nuove norme, ma il cambiamento esige investimenti e un grande impegno e rinnovamento culturale, didattico, professionale di chi nella scuola lavora.

Occorrono pratiche “collettive”, dalla didattica attiva all’apprendimento collaborativo e in piccoli gruppi, che promuovano un apprendimento più duraturo e consapevole per tutti, oltre a interventi specificamente rivolti agli alunni con particolari bisogni.

Tra questi un’ampia gamma di strumenti compensativi e misure dispensative, previsti dalla legge a tutela degli alunni con DSA: non certo come facilitazione o vantaggio, secondo un’interpretazione distorta della funzione di questi mediatori didattici, ma come strumenti fondamentali per sostenere percorsi di autonomia, con l’avvertenza che personalizzazione e individualizzazione non vengano utilizzati per stigmatizzare categorie di difficoltà, operando così processi più di separazione che di inclusione.

È da tenere presente, infine, che solo in un ambiente favorevole, le strategie progettate contribuiscono a creare inclusione e che il rinnovamento metodologico è da intendersi come processo che non si riferisce a un singolo soggetto ma a un’intera comunità scolastica capace di “ri-pensarsi” come luogo del successo formativo di tutte e di tutti.

Si tratta di una sfida difficile, che solo una scuola sostenuta da opportune scelte di carattere politico, economico, culturale può affrontare e provare a vincere.


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